Hamasei -濱清- Roma

Uno dei ristoranti giapponesi storici di Roma, in centro, vicino a Piazza di Spagna. Ci andiamo in 4, con tre giapponesi in Italia per lavoro che dopo 3 giorni di cucina romana hanno voglia di sapori di casa.
L’esterno del locale è nel più puro stile “ristorante giapponese stiloso”, tutto superfici lucide, vetri e acciaio cromato.
All’interno, nell’aria c’è un leggero odore di incenso. La cosa è abbbastanza surreale. Uno va per mangiare e ha dei deja-vu olfattivi che lo portano ai templi buddhisti. Ma probabilmente per gli avventori occidentali fa molto “Giappone”. Comunque…
Il locale è un lungo e largo corridoio inframezzato da dei separé per interrompere una certa monotonia.
Ci accomodano in un tavolo un po’ in fondo. Alle otto di sera la sala è mezza vuota.
In un locale così lucido e patinato i menù che ci propongono creano un certo contrasto. Si tratta di fotocopie di pagine fatte al computer infilate in un porta documenti in plastica ingiallita, stropicciata e unticcia. Non manca qualche errore di trascrizione qua e là. In copertina c’è un’altra stampa a computer confusa e ingiallita che non si capisce cosa raffigurati. All’interno altre immagini cheap delle pietanze in lista.
Il cameriere indiano o cingalese che viene a prendere le ordinazioni delle bevande ci saluta in giapponese ma ci mettiamo un po’ a ordinare delle birre in quanto non solo non parla giapponese, ma anche con l’italiano ha qualche problema. Dopo un po’ riesco a capire che non hanno birra alla spina. Niente nama-chu insomma. Ordino 3 Asahi in bottiglia e una Sapporo in lattina.
Come piattino di benvenuto, in pieno stile giapponese, una polpettina in salsa teriyaki.
A prendere le ordinazioni è arrivata una camerierina giapponese un po’ punk coi capelli biondi sparati col gel e vistosi piercing nelle orecchie. In Giappone sarebbe impensabile avere una cameriera così. Anche nel linguaggio e nell’atteggiamento complessivo direi che è un po’ troppo informale e si prende alcune libertà coi clienti che in patria porterebbere a una bella strigliata. Probabilmente è arrivata in Italia seguendo chissà che sogno di libertà e dolce vita e adesso si trova a fare la camerirea in un ristorante giapponese. Poco male, in fondo fa il proprio dovere.
Ordiniamo tori-no-karage (bocconcini di pollo fritto), tsukemono moriawase (mix di verdure in salamoia), ume-boshi e sukiyaki per quattro.
Il karage è più che onesto. Ha un tocco casalingo che non dispiace per niente.
Umeboshi passabili come gli tsukemono. Il daikon è buono. Hanno anche — che è un po’ spento ma il fatto che ci sia è già di per se’ un evento. Gli ingredienti arrivano sicuramente dal Giappone pur non essendo di primissima qualità sono più che accettabili.
La cameriera punk ci porta il fornello centrale per sukiyaki e ci premette che non è come lo si fa in Giappone in quanto le verdure non è facile farle arrivare. Infatti ci sono zucchine e carote. Cavolo cappuccio ed erba cipollina (negi) comuque non mancano. In aggiunta dei funghi (finferli?), tofu, spaghettini di riso.
E poi la carne. E qui la sorpresa. Non solo è tagliata sottile, al punto giusto, ma è tutta venata di grasso proprio come la vera carne giapponese. Non stiamo certo parlando di carne di Kobe, che anche in Giappone è una costosa rarità, ma anche la normale carne di manzo in Giappone è normalmente abbondantemente venata di grasso. E questa lo è. Chissà dove la trovano.
Nel complesso il tutto ha un sapore corretto. Alnche la salsa ha il gusto giusto, la giusta dolcezza.
Anche il tofu stupisce per la giusta consistenza, estremamente morbida. Mi verrebbe quasi da chiedergli dove se lo procurino.
La nota dolente è il prezzo. Per quattro persone, per qualche piatto alla stregua di antipasto, un sukiyaki per quattro e quattro birre, spendiamo 171 euro. In Giappone si spenderebbe circa la metà.